di Alfredo Morganti
Roma
Ancora oggi se si va in centro
si dice “vado a Roma”,
tanto è distante ciò che si chiama
città, da ciò che non lo è.
È abitudine, vizio antico,
che, se persiste, una ragione
dovrà pur esserci. Nel dubbio,
di una cosa si è certi,
che queste strade avvolte a spirale,
non portano indietro nel tempo,
non sommano storia, né avanti
verso le case più fitte
che consentono un cammino
di porta in porta, mentre qui
in borgata gli spazi sono vuoti,
diradati, ripieni di niente.
E tra le mura di cinta esalano fremiti.
Di questo mi dolgo, degli abissi
schiusi tra le case, anche quando
ci appaiono fitte, affastellate
come a Torre Angela, o come
a Tor Bella Monaca alte e rade.
Poggiate gli occhi sul crinale
che le separa e vedrete l’insuperato
contrasto tra magma e schema,
tra vivace moltitudine
e spazi strutturati. Ma attenti:
né l’una né l’altra è città.
Solo modi diversi di dire
(o non dire) la nostra quotidiana
ristrettezza, o povertà.
Non Roma
Vallo a dire che ti trovi a Roma.
Quanti sono disposti a crederti?
So per certo che molti romani
non passano di qui,
e se lo fanno è solo per necessità
non si fermano mai,
al più guardano curiosi
dal finestrino,
fanno segno ai loro bambini,
e accennano a queste venute
come a un episodio speciale
della loro vita, da rammentare,
un monito quasi.
E poi parlano di queste case
con tono inquieto, come se
vi si annidasse il male, o giù di lì.
Di certo, le lingue che si parlano
sono innumerevoli, una specie
di Babele, e l’italiano è solo
una lingua di mediazione,
quella più pratica, solo per capirci
al banco degli alimentari,
con la commessa rumena o polacca,
gentile e indaffarata.
Basta un’occhiata a discernere
un indigeno dagli altri, così come
basta poco a distinguere
un romano di qui dagli altri cittadini
di Roma. È sufficiente sbirciare
questi volti per dire che c’è una differenza
antropologica, persino.
Stranieri, si è stranieri per condizione.
Forse per vocazione.
L’amo ancora questa città?
Mi dibatto e mi interrogo
alla ricerca di un parere
in materia, ma resto incerto.
Ho negli occhi le bellezze eterne,
le pietre secolari, aguzze
o le minuzie, gli scorci di certi
angoli, gli spiriti invisibili
che fanno grande il caos di quaggiù.
Poi scorgo anche
le quattro case disperse in borgata,
le strade povere, umiliate come trincee,
le piazze ridotte a lamiere
ammassate, e mi chiedo allora
se siano cose avulse, incomparabili,
o sia solo il mio giudizio a latitare.
Sarà che amore è anche rabbia,
ma io non provo sensi netti, o recisi
né adesione romantica a questi luoghi
così disparati. Forse disperati. Lontananza,
o polvere che aleggia e che mi scuote,
sabbia, granaglie,
pulviscolo e nubi basse prima
di un temporale.
Roma è questa vampa calda,
fuoco che non arde
mai abbastanza, e che non scalda.
E noi questa vita smembrata
POSTFAZIONE
Non Roma non è soltanto il negativo di Roma, ma un luogo reale, fisico, ai margini della Capitale: borgate ex abusive, quartieri difficili come Tor Bella Monaca o Torre Angela, un tessuto sociale ‘slabbrato’ e disadorno come quello di Borghesiana.
Un non-luogo, per dirla come Marc Augè, se non fosse che si tratta di zone, piazze, strade, case abitate da una presenza umana multiforme. Ho provato a chiamare ‘Non Roma’ questo spazio scarsamente urbano, anzi destrutturato, ammassato e spesso informe, per dargli un nome che fosse anche ‘illustrativo’ e quasi didascalico della condizione urbana e personale che lo caratterizza. Una negazione che è comunque anche un’affermazione di identità. Luogo marginale sino a un certo punto, perché sono centinaia di migliaia coloro che lo abitano, una folla di persone che vivono una vita difficile, complicata: ceto medio, si badi, non solo diseredati.
Ho voluto tentare una sorta di poesia civile. Oggi che la poesia è mal-intesa come pura espressione di un animo fragilissimo: animo solitario, borghese, restìo, narciso, egoico. E invece i versi dovrebbero raccontare anche la condizione umana in generale, le relazioni sociali, le questioni pubbliche, le solitudini collettive del genere di quelle che attecchiscono, appunto, nella borgata contemporanea, che della vecchia comunità non ha davvero più nulla. Filtrarle espressivamente, personalmente, come è giusto che sia quando si scrive in un registro poetico; ma mai soffocarle in certi deliri individuali e algidi, spesso collocati fuori da un contesto o da una cornice ampia di relazioni, rapporti, dialogo pubblico (anche solomimato o presagito).
‘Io’ sono il protagonista dei versi. Perché non si può rinunciare alla spinta ‘propulsiva’ ed espressiva del soggetto quando si scrivono poesie, o quasi-prose come le mie. Ma il panorama, la scena, la ‘quinta’ di questi versi è un ambiente preciso, sociale, storico, urbano, sono altri individui (ma non ancora un ‘noi’), persone talvolta antropologicamente diverse dal ‘cittadino’ inteso nel significato tradizionale. Le poesie respirano un senso di ‘diversità’, sul quale io calco la mano abbondantemente e consapevolmente. Volevo una poesia della negazione, ma anche della differenza. Non versi ‘nichilist ma di opposizione (seppure soltanto culturale e psicologica) tra mondi diversi: l’ambiente urbano denso, strutturato e quello ‘sparso’, impalpabile delle borgate. Metterli a contrasto per capirli di più. Non creare un ‘tipo’ astratto e privo direlazioni (quello del non-cittadino), colto nella sua sciocca assolutezza. Ma mostrare una dialettica, seppur ‘bloccata’.
Credo che ‘cantare’ le borgate non sia facile, soprattutto perché il canto, in questo caso un canto molto dimesso, quasi prosastico, si libra pesantemente da questi paesaggi privi di una vera densità o spessore urbano. Ma forse le ali vere sono quelle capaci di trascinare in alto persino la pietra di tufo delle case abusive piantate alla cieca nei prati.
Non Roma, 30 settembre 2016
Alfredo Morganti
Di mio apprezzo molto le dicotomie, gli accostamenti inquietanti che costringono a riflettere e indagare. Perciò la poesia/prosa di Roma/Non Roma mi parla, la colgo non solo come visione di una realissima capitale con le sue periferie ma , e forse proprio per questo, come metafora del mondo attuale.
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In effetti, il contrasto che c’è tra un centro e la sua periferia potrebbe essere metafora di altri contrasti, ancor più significativi. Il mondo si presenta spaccato in due, e al centro un abisso (di disuguaglianze, di iniquità, di sofferenza) che tende ad ampliarsi. ‘Roma e Non Roma’ è anche poesia civile, che racconta le borgate e il vuoto urbano e sociale, laddove spesso si incontrano anche segnali di vita, ma dove in genere il senso del negativo è fortissimo. Ho cercato di raccontare in termini realistici, non solo vagamente esistenziali. in fondo, accostare la poesia alla durezza dell’esistenza, il canto alle pietre, è una delle operazioni più belle da mettere in piedi.
(Alfredo Morganti)
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