Anche l’Italia ci provava, con grande impegno soprattutto di Francesco Crispi. Ma l’Italia non aveva grandi capitali da esportare. L’imperialismo italiano si fondava sulla promessa della terra da lavorare per le masse rurali soprattutto meridionali. I capitalisti settentrionali invece più volentieri avrebbero visto impiegate in Italia le ingenti somme che venivano spese in Africa.

L’Italia inizialmente guardava alla Tunisia data la vicinanza rispetto alla Sicilia e una lunga tradizione di rapporti economici, ma s’inserì la Francia che nel 1881 occupò quei territori causando in Italia vivaci proteste e risentimenti.

L’Italia si rivolse allora verso l’Africa Orientale con l’acquisto di Assab nel 1882 e con l’occupazione del porto di Massaua nel 1885.

Il governo acquistò Assab dall’armatore genovese Rubattino. Assab è una località abissina sul Mar Rosso nella regione eritrea della Dancalia che l’armatore aveva comprato dai capi di una tribù, ufficialmente per realizzare una base di rifornimento e assistenza ai suoi traffici in Oriente ma in realtà l’operazione era stata condotta per conto dello Stato italiano. Artefice dell’operazione di acquisto, perfezionata nel 1869, fu padre Giuseppe Sapeto, missionario ed esploratore, che fino al 1881 ricoprì la carica di Commissario italiano di Assab come agente commerciale della società Rubattino.

Alla Camera si discusse di Assab il 10 marzo e il 12 giugno 1882. Per l’opposizione il deputato Cesare Parenzo, progressista ex garibaldino, chiese in che modo l’acquisto di una colonia potesse conciliarsi «con le dottrine che abbiamo sempre sostenute, coi princìpi che sono il fondamento del nostro diritto nazionale». Il Parenzo si riferiva al principio di nazionalità, che stava alla base del Risorgimento e giustificava la guerra per la liberazione della patria mentre adesso si era di fronte alla guerra aggressiva e di conquista fuori dai propri confini. Il ministro degli Esteri, Pasquale Stanislao Mancini, insigne studioso del principio di nazionalità come fondamento del diritto delle genti, rispose che i principi validi per popolazioni civilizzate non potevano essere applicati sic et simpliciter a quei territori abitati da tribù «quasi selvagge e semibarbare».

Gli inglesi, inizialmente ostili, si convinsero a non ostacolare la penetrazione italiana nel Mar Rosso perché poteva servire a scoraggiare i francesi. Così con il beneplacito della Gran Bretagna il 5 febbraio 1885 un corpo di spedizione di 1500 bersaglieri comandato dal colonnello Tancredi Saletta, occupò il porto di Massaua in modo pacifico tra le proteste inascoltate dell’Egitto (protettorato di fatto della Gran Bretagna) e della Turchia.

Nel 1889 l’Italia ottenne il protettorato di una parte della Somalia che nel 1905 divenne colonia. Nel 1890 divenne colonia italiana una parte dell’Eritrea. La Colonia Eritrea doveva servire da base per l’espansione nel Corno d’Africa. Il 28 febbraio 1892 Oreste Baratieri fu designato governatore della colonia Eritrea e comandante in capo delle truppe e gli fu affidato, dal Crispi, il compito di completare la conquista dell’Abissinia. Dopo alcune vittoriose battaglie e relative annessioni si verificò la triste vicenda dell’eccidio di un reparto italiano di 2500 uomini avvenuto sull’Amba Alagi il 3 dicembre del 1895. Baratieri demoralizzato presentò le dimissioni, ma fu convinto dal primo ministro Francesco Crispi a passare all’offensiva contro gli africani. L’attacco si concluse con la sanguinosa battaglia di Adua del 1º marzo 1896, una delle disfatte più pesanti della storia d’Italia. La sconfitta di Adua segnava la fine della carriera politica di Crispi e rinviava a tempi migliori i programmi di espansione nel Corno d’Africa.

La battaglia di Adua
La battaglia di Adua

Nel clima di forte polemica che aveva portato alle dimissioni del Governo Crispi, il 10 marzo 1896, in seguito alla disfatta di Adua e del successivo umiliante trattato di Addis Abeba divenne molto popolare una poesia di Olindo Guerrini, composta per dileggiare la retorica militarista, nella quale utilizzava la frase entrata nell’uso comune “Armiamoci e partite”.

Ah, siete voi? Salute o ben pensanti,

In cui l’onor s’imbotta e si travasa;

Ma dite un po’, perché gridate “avanti!”

E poi restate a casa?

Perché, lungi dai colpi e dai conflitti,

Comodamente d’ingrassar soffrite,

Baritonando ai poveri coscritti

“Armiamoci e partite?”

Nel 1890 Crispi cercò di ottenere dalle grandi potenze il permesso per l’Italia di prendere possesso di Tripoli. La Francia era piuttosto vaga. Germania, Austria-Ungheria e Inghilterra erano favorevoli in linea di massima, ma consigliavano di aspettare. Le differenze di opinione tra i politici italiani, la considerazione dell’alto costo e dei piccoli vantaggi delle imprese coloniali italiane nella zona del Mar Rosso, frenarono l’Italia dal prendere tutte le iniziative necessarie per ottenere il controllo su Tripoli fino al 1900.

Nel 1900 l’Italia stipulò una convenzione segreta con la Francia che fu ratificata nel 1902 anche se il testo dell’accordo rimase segreto. Era stato convenuto che la Francia avrebbe avuto mano libera in Marocco, e l’Italia riceveva dalla Francia una garanzia simile per quanto riguardava Tripoli.

Da quel momento l’Italia cominciò a portare avanti costantemente il processo di penetrazione pacifica a Tripoli. Le uniche navi a vapore che partivano regolarmente per Tripoli erano italiane, il Banco di Roma manteneva un’agenzia a Tripoli ed esercitava una grande influenza. Fu stabilito un sistema scolastico considerevole, sovvenzionato dal governo italiano. Furono progettate ferrovie. Tripoli fu inserita nel sistema postale italiano. Come risultato di queste attività italiane, tranne per il suo status politico, Tripoli era nel 1908 praticamente provincia italiana.

La rivoluzione dei Young Turks del luglio 1908 minacciò di cambiare questa situazione radicalmente. Finora il processo di penetrazione da parte degli italiani aveva incontrato poca opposizione da parte dei funzionari turchi. Ora gli ufficiali inviati a Tripoli, evidentemente sotto istruzione, resistevano con vigore agli sforzi degli italiani e si verificarono parecchi “incidenti”.

Una vivace agitazione nella stampa italiana nei primi giorni di settembre 1911, segnò l’azione intrapresa dal governo italiano il 27 di quel mese. In una breve nota  il governo italiano affermava “l’assoluta necessità di porre fine al disordine che prevale a Tripoli e il diritto di quella regione di essere ammessa ai benefici dello stesso progresso di cui godevano le altre parti del Nord Africa”.

Il governo turco veniva accusato della costante manifestazione di ostilità verso la legittima attività d’Italia a Tripoli.

Nel 1912 l’Italia, governata da Giolitti, strappava alla Turchia i possedimenti della Tripolitania e della Cirenaica, che insieme formeranno la Libia, oltre alle isole greche del Dodecanneso. L’impresa libica fu glorificata in una famosa canzone, A Tripoli, di Arona e Corvetto, meglio nota come Tripoli bel suol d’amore, portata al successo dalla cantante Gea della Garisenda che la cantò per la prima volta al teatro Belbo di Torino coperta solamente da un drappo tricolore con lo stemma sabaudo.

Cartolina diffusa nel 1911 - 1912
Cartolina diffusa nel 1911 – 1912 che esalta i valorosi combattenti in Tripolitania e in Cirenaica

Lo storico e politico di sinistra Gaetano Salvemini criticava l’impresa definendo la Libia uno “scatolone di sabbia”. Il poeta Giovanni Pascoli invece inneggiava da sinistra all’impresa con un memorabile discorso tenuto nel Teatro Comunale di Barga il 21 novembre 1911, che iniziava così: “La grande proletaria si è mossa. Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora: ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città, dove era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada”.

Più scontato l’entusiasmo del nazionalista Gabriele D’Annunzio manifestato con Le dieci canzoni delle gesta d’oltremare pubblicate sul Corriere della Sera nell’ottobre-dicembre del 1911.

L’islamista Leone Caetani sconsigliava l’invasione, prevedendo che i libici non sarebbero stati disposti a sottomettersi agli italiani. I sindacalisti Alceste De Ambris, Filippo Corridoni e altri definirono l’invasione una guerra di brigantaggio del tutto inutile anche dal punto di vista dei vantaggi per il proletariato. L’economista e sindacalista rivoluzionario Enrico Leone scrisse un libro contro la politica di colonizzazione violenta, Espansionismo e colonie.

Le parole che abbiamo ricordato del ministro Mancini a proposito delle tribù quasi selvagge, riflettevano un sentire diffuso nella società europea del tempo. Sistemi di vita diversi da quelli occidentali, e sistemi di produzione diversi da quello capitalistico industriale venivano in buona fede considerati inferiori e destinati a scomparire.

 

Fonti

Giuseppe Sapeto, Assab e i suoi critici, Stabilimento Pietro Pellas, Genova 1879

Sul campo di Adua: diario 1897. Eduardo Ximenes, Fratelli Treves Editori, Milano 1897

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