Un tema comune delle campagne elettorali, da parte dei neo-liberisti di orientamento supply side (Berlusconi e Salvini sono un tipico esempio), è la proposizione che una riduzione della tassazione (e, in misura minore, della spesa pubblica) non solo aumenterebbe il PIL ma genererebbe maggiori entrate fiscali tali da compensare o superare il minor gettito derivante dalla riduzione delle aliquote. In questa ipotesi, quindi, la riduzione delle imposte non peggiorerebbe i conti pubblici.
Ma è davvero così? La realtà dei fatti e la teoria evidenziano esattamente il contrario!
La riduzione della spesa pubblica
Vediamo, con un semplice esempio che può essere complicato a piacere, i possibili effetti di una riduzione della spesa pubblica sul bilancio pubblico. Vogliamo in questo modo cercare di comprendere se, tralasciando altre considerazioni di carattere sociale, tali misure sono almeno efficaci nel risanare i conti pubblici. Ad esempio, riducendo le retribuzioni dei pubblici dipendenti di un importo uguale a 100 con aliquota di imposta media, poniamo, al 30%, vi è nel settore pubblico un risparmio pari a 100 .
D’altra parte, bisogna considerare che i lavoratori, non spendendo più i loro redditi, provocano una diminuzione corrispondente di domanda aggregata.
Ipotizzando che, in base alla formula del moltiplicatore*, in presenza di imposte sul reddito 1/[1 – c(1 – t)], la propensione al consumo** sia di 0,8 otteniamo, con un’imposta media del 30% (0,3 nel moltiplicatore),
-100/[1 – 0,8(1 – 0,3)] ≈ – 100/(1 – 0,8 + 0,24) ≈ -227
se quindi, come ipotesi verosimile, la tassazione complessiva diretta e indiretta è del 50% ciò comporta una riduzione di gettito di ≈ -114. Il risultato netto per le finanze pubbliche è quindi -114 + 100 = -14 ed è solo il ruolo degli ammortizzatori sociali*** che mitiga alquanto questi effetti. I teorici più “ortodossi”, d’altra parte, sperano che la diminuzione del reddito pubblico possa dar luogo ad un parallelo incremento degli investimenti privati. Ma tale ipotesi (crowding out effect), al di là delle implicazioni sociali, non si è mai verificata, nel senso che i tagli della spesa pubblica non sono stati bilanciati da maggiori investimenti privati. Anche per questo la quota della spesa pubblica sul PIL è costantemente aumentata nel lungo periodo in tutti i Paesi OCSE negli ultimi 50 anni. Un importante motivo per questo aumento è che la spesa pubblica (e la creazione di credito), oltre a fornire beni pubblici essenziali, costituisce un’importante (e largamente insostituibile) componente della domanda effettiva (e quindi dei profitti del settore privato). Negli ultimi 15 anni, la quota della spesa pubblica sul PIL si è stabilizzata attorno al 50%, ed è significativa la circostanza che nemmeno le più draconiane misure di austerità sono riuscite a ridurla,
https://data.oecd.org/gga/general-government-spending.htm
Come notato in altri contributi, le politiche di austerità sono state estremamente negative per almeno tre motivi: (i) hanno ridotto la domanda effettiva, a cui si è cercato di compensare con un vertiginoso aumento del debito privato sul PIL; (ii) Come evidenziato acutamente da John Kenneth Galbraith in The Affluent Society, i tagli alla spesa pubblica tout court riducono i servizi per i cittadini ma non i privilegi legati alle lobby della spesa pubblica; (iii) i tagli alla spesa pubblica hanno ostacolato gli investimenti pubblici necessari per l’ammodernamento del Paese.
La vera issue, quindi, non consiste nel tagliare la spesa pubblica ma nel renderla più efficiente ed orientata al servizio della collettività.
La riduzione delle imposte sul reddito
Supponiamo ora di diminuire l’imposta sul reddito dal 30% al 20%. Il nuovo reddito, ponendo la domanda autonoma complessiva uguale a 100.000, sarà uguale a,
100.000/[1 – 0,8(1 – 0,2)] = 100.000/(1 – 0,8 + 0,16) ≈ 278.000
La differenza del nuovo livello di reddito 278.000 con il livello precedente di circa 227.000, è pari a 51. Il livello del gettito, nonostante l’aumento teorico del PIL del 22% (valore che come vedremo subito è del tutto irrealistico) diminuisce. In particolare la differenza è uguale a (278*0,2 – 227*0,3) ≈ 56 – 68 = -12. La situazione non migliora di molto nemmeno se consideriamo il maggior gettito delle imposte indirette collegate al PIl (in particolare l’IVA). Considerando come ipotesi realistica un gettito dell’IVA pari a circa il 10% del PIL, avremmo un incremento di gettito pari ad un decimo dell’incremento teorico del PIL (51). Ossia 51*0,1, uguale a 5,1. E’ facile vedere che nemmeno in questa ipotesi si raggiungerebbe l’equilibrio di bilancio; avremmo infatti un deficit derivante dalla riduzione delle imposte pari [(56 + 5,1) – 68] ≈ -6,9.
E tutto questo supponendo un aumento del PIL di ben il 22%! Se, come risulta molto più verosimile, per una serie di motivi (economici, tecnologici e istituzionali) la curva di offerta tende ad essere più rigida per incrementi più che marginali della quantità offerta, si avrà un incremento molto minore del 22%, e quindi un peggioramento ben più ampio dei conti pubblici. Vi sono varie spiegazioni per questo fenomeno: dal lato dell’offerta, le imprese, di fronte ad un repentino aumento della domanda, possono trovare più conveniente aumentare i prezzi anziché espandere la produzione (e ciò in particolare se, come avviene quasi sempre, se i costi medi di breve periodo sono crescenti e l’elasticità della domanda è inferiore ad uno). Mentre, dal lato della domanda, non vi è garanzia che le persone spendano subito il maggior reddito, anche a causa del fenomeno di “sazietà” per molti prodotti: se noi desideriamo un cappello e due chili di arance, è difficile che ne compriamo il doppio se il prezzo si dimezza. Ed ancora più difficile che compriamo (a parte motivi speculativi) dieci cappelli e venti chili di arance se il prezzo diventa un decimo di quello iniziale.
Chiaramente, gli esempi riportati sono solo indicativi di una realtà ben più complessa, che è necessario considerare nei suoi molteplici elementi per arrivare ad una valutazione precisa degli effetti ex-ante, in itinere ed ex-post delle varie politiche e dei valori assunti in concreto dai moltiplicatori. Tuttavia, pensiamo che gli esempi riportati sintetizzino alcuni dei problemi centrali delle politiche macroeconomiche. Ciò è evidenziato dalla circostanza che, variando a piacere i valori della propensione al consumo e dell’aliquota di imposta, i risultati ottenuti confermano il risultato di fondo. Ossia che, a fronte di una riduzione di imposte, nemmeno un notevole (ed irrealistico) aumento del PIL riesce a mantenere in pareggio i conti pubblici.
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* Il moltiplicatore del reddito (ideato da R.F.Kahn) costituisce una delle più importanti scoperte dell’economia Keynesiana e può in estrema sintesi essere descritto nel modo seguente. Supponendo che vi sia un incremento di spesa autonoma, ossia che non dipende da un reddito precedente (ad esempio, spesa pubblica e spesa privata originata da creazione di credito, ossia di nuovo potere di acquisto), l’incremento complessivo del PIL potrà essere ben maggiore dell’aumento di spesa autonoma: ad esempio, se vi è un aumento di spesa pubblica, nella forma di nuove assunzioni, pari a 1000, con una propensione marginale al consumo di 0,8, ciò determinerà un aumento dei consumi dei pubblici dipendenti, e quindi del corrispondente reddito per i produttori, di 800. Il processo però non si ferma qui, i produttori infatti spenderanno il loro reddito per una quota di 0,8*800, ossia C2 1000 per un totale di 640, i produttori che percepiscono i 640 spenderanno 0,8*640 ossia C3*1000 = 512, e così via. Di conseguenza la somma della serie geometrica C1 +…..Cn sarà uguale a 1/(1 – 0,8) = 5
** I valori dell’esempio sembrano realistici in molti casi, ossia che un incremento di spesa autonoma di 100 generi un incremento complessivo di domanda e di reddito di 227. Ovviamente, la stessa sequenza, ma in negativo, avviene nel caso di una riduzione della spesa pubblica, come nell’esempio riportato. Anzi, per una serie di motivi collegati alla struttura dell’offerta e delle aspettative, è probabile che gli effetti demoltiplicativi siano più pronunciati degli effetti moltiplicativi.
*** Può essere interessante notare che questo effetto può dar luogo ad una spirale pericolosa: infatti, se, a fronte del peggioramento dei conti pubblici e alla diminuzione del PIL, si ritiene che ciò sia dovuto non all’effetto descritto ma all’insufficienza dei “tagli”, si arriverà alla conclusione che saranno necessari “tagli” ancora maggiori, con probabili conseguenze ancora più negative sulle variabili economiche. Questa spirale può essere supportata anche dal super-io psicoanalitico connesso ad un senso di colpa inconscio per le fantasie avide di svuotare il seno materno. Nella crisi economica attuale, che investe tutti “i fondamentali del sistema”, sicuramente non vi sono ricette facili, però, un’analisi approfondita di questi aspetti può contribuire a delineare politiche macroeconomiche e strutturali maggiormente orientate ad uno sviluppo equo e sostenibile.