Come è noto, la teoria dell’istinto di morte rientra nella seconda teoria delle pulsioni di Freud, che considera l’esistenza come una lotta perpetua, in uno spirito “faustiano”, tra due tendenze irriducibili: quelle collegate alla vita, che cercano di realizzare aggregazioni sempre più vaste, e quelle riconducibili alla morte, che tendono a disgregare e distruggere tutto per raggiungere uno stato di quiete perenne.

Tale teoria, formulata nel testo Al di là del principio del piacere del 1920, sostituisce la prima teoria delle pulsioni, basata sul dualismo cibo/amore, ossia sessualità (intesa in senso ampio) e sopravvivenza. Da allora in poi, la seconda teoria delle pulsioni basata sull’istinto di morte è rimasta ─ nonostante numerose critiche ed un certo scontento di fondo sulla sua adeguatezza ─ la teoria dominante nell’ambito del paradigma freudiano. Eppure, la prima teoria delle pulsioni di Freud sembra molto valida: in effetti, bastava inserirvi l’aggressività (come funzione vitale che può essere distorta ed ampliata da fattori nevrotici) per renderla completa. Freud vi andò molto vicino quando osservò che l’odio “as an expression of the reaction of unpleasure provoked by objects, it remains forever closed related to self-preservation drives, so that ego drives and sexual drives readily form an opposition replicating that between hate and love.”, (S.Freud, “Das Unbewusste“, Internationale Zeitschrift fϋr ärztliche Psycoanalise, 1915. Citazione tratta da The Unconscious. London: Penguin, 2005: 30).

Egli però non raggiunse l’obiettivo di integrare l’aggressività nella teoria delle pulsioni, probabilmente (i) a causa del pessimismo originato dalla grande guerra, dall’avanzare dell’età e dall’insorgenza della malattia; (ii) dalla sua difficoltà a riconoscere l’aggressività nevrotica derivante dal suo complesso edipico. Oltre a questi fattori soggettivi, vi sono altri elementi oggettivi della debolezza della teoria dell’istinto di morte:

(I) In effetti, la motivazione inconscia profonda che può essere alla base della formulazione della teoria dell’istinto di morte (che ne spiega anche la sua persistenza) sembra essere una difesa/resistenza/difficoltà rispetto all’analisi dell’aggressività nevrotica. In questo modo, tale aggressività viene “spiegata” ─ in una sorta di rassegnato pessimismo sulle caratteristiche della “natura umana” ─ attraverso un’entità davvero metafisica. Infatti, è difficile rintracciare un qualsiasi fondamento biologico e psicologico in tale teoria. Indubbiamente, gli esseri viventi nascono e muoiono, e quindi, si potrebbe dire, poiché sono programmati per morire, hanno un istinto di morte. Questa idea, però, è poco fondata, perché inverte l’ordine delle cose. Se, ad esempio, il ciclo vitale di un cane è di 15 anni e di una farfalla di pochi giorni, non è perché il loro “istinto di morte” ha deciso così, ma perché la loro struttura fisica non riesce andare oltre quel tempo. Per tutto il ciclo vitale, però, gli esseri viventi faranno di tutto per vivere. Se, nel caso dell’uomo, vi sono casi in cui si cerca di accorciare e/o danneggiare la vita, ciò dipende non dall’istinto di morte ma dall’aggressività collegata ai conflitti nevrotici.

 (II) Nella teoria dell’istinto di morte si ipotizza un’antitesi tra vita/desiderio sessuale e stato di quiete/morte; ma perché lo stato di quiete (il principio freudiano del nirvana) debba essere equiparato a morte non è dato sapere: se uno sta sotto una palma a prendere il fresco, potrà essere pigro ma è vivo e vegeto. Il mondo animale ce lo insegna, gli animali “lavorano” per l’indispensabile, e poi se ne stanno tranquilli. Anche se osserviamo i bambini, non vi è traccia di istinto di morte, quando una persona muore per loro “è volata via”. Collegare poi questa ricerca di quiete ad un’aggressività distruttiva è ancora meno realistico. In effetti dovrebbe essere il contrario: se uno vuole starsene quieto, ha poco senso che si metta ad ammazzare la gente!

(III) In effetti, la teoria dell’istinto di morte tende a far dimenticare che una riduzione dei conflitti nevrotici dovrebbe comportare una parallela diminuzione dell’aggressività nevrotica ad essi collegata. Tale aggressività può anche includere il desiderio di morte, ma ciò, più che da un “istinto”, può derivare ─ oltre che dai conflitti nevrotici e dal tentativo di scaricare la tensione ad essi collegata ─ dal tentativo di evitare la paura della morte attraverso una sorta di “identificazione con l’aggressore”. In questo senso, la psicoanalisi dell’aggressività nevrotica può aiutare a comprendere meglio le paure ed i conflitti associati alla realtà della morte.

In conclusione, anche quando Freud concepisce l’esistenza come una lotta irriducibile tra istinto di vita e istinto di morte ─ o tra bene e male in una prospettiva “faustiana”, anche se in effetti non fu mai completamente convinto di questa teoria ─ egli non assume né che tali “istinti” siano distribuiti tra le persone in proporzioni immutabili, né che vi sia una sistematica prevalenza dell’uno o dell’altro. Vi è quindi poco determinismo nella sua teoria che, al contrario, evidenzia la complessità dei fattori nell’orientare il comportamento umano ed il ruolo della psicoanalisi nel promuovere le tendenze “vitali”. A questo riguardo, Freud ritiene che la psicoanalisi, in collaborazione con le altre scienze sociali, possa svolgere un ruolo rilevante nel promuovere il cambiamento sociale. Come egli osserva, in una colorita discussione con un interlocutore immaginario,

“[Psychoanalysis]….as a ‘depth-psychology’, a theory of the mental unconscious, it can become indispensable to all the sciences which are concerned with the evolution of human civilization and its major institutions such as art, religion and the social order. It has already, in my opinion, afforded these sciences considerable help in solving their problems. But these are only small contributions compared with what might be achieved if historians of civilization, psychologists of religion, philologists, and so on would agree themselves to handle the new instrument of research which is at their service. The use of analysis for the treatment of neuroses is only one of its applications; the future will perhaps show that it is not the most important one…..Then let me advise you that psycho-analysis has yet another sphere of application….Its application, I mean, to the bringing-up of children. If a child begins to show signs of an undesirable development, if it grows moody, refractory, and inattentive, the paediatrician and even the school doctor can do nothing for it, even if the child produces clear neurotic symptoms, such as nervousness, loss of appetite, vomiting, or insomnia….Our recognition of the importance of these inconspicuous neuroses of children as laying down the disposition for serious illnesses in later life points to these child analyses as an excellent method of prophylaxis….Moreover, to return to our question of the analytic treatment of adult neurotics, even there we have not yet exhausted every line of approach. Our civilization imposes an almost intolerable pressure on us and it calls for a corrective. Is it too fantastic to expect that psycho-analysis in spite of its difficulties may be destined to the task of preparing mankind for such a corrective?”, “S.Freud, Die Frage der Laienanalyse. Unterredungen mit einen Unparteiischen, Lipsia, Vienna and Zurich, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, 1926. Citazioni tratte da The Question of Lay Analysis, The Standard Edition, New York, Norton, 1990, pp.83, 84, 85).

Arturo Hermann