Come è noto, in particolare negli ultimi anni ed anche in seguito ai problemi della crisi economica, si è sviluppata una corrente di pensiero favorevole, in varie forme, all’uscita dal sistema della moneta unica europea. I vantaggi sarebbero, secondo i suoi assertori, un recupero della potestà sul tasso di cambio, che permetterebbe così di svalutare la moneta e guadagnare quote di mercati esteri. In effetti, tale proposta non è affatto nuova: è la classica politica del beggar-thy-neighbour che si riaffaccia puntualmente nei periodi di crisi economica accompagnati da tendenze “sovraniste” (ovviamente è necessario migliorare vari aspetti dell’Unione Europea).
Per i più convinti fautori, la svalutazione sarebbe un vero e proprio toccasana, mentre i suoi svantaggi in termini di inflazione importata e diminuzione dei salari reali sarebbero limitati o nulli.
Ora, ammesso (e non concesso) che gli svantaggi siano limitati, concentriamo l’attenzione sui possibili vantaggi. Se, ad esempio si ripristina una nuova valuta nazionale e si fissa il cambio nominale al valore dell’80% dell’euro – ossia con un euro si compra 1/0,8 = 1,25 della nuova valuta − un cittadino dell’eurozona che volesse acquistare un bene di consumo in Italia che prima costava 1000 euro ora ne spenderebbe 1000*0,8 = 800 euro.
Vi sarebbe quindi, secondo i suoi assertori, ─ i quali danno evidentemente per scontato che la condizione Marshall-Lerner per l’equilibrio della bilancia commerciale sia ampiamente superata e mantenuta nel tempo ─ un forte incremento delle esportazioni ed un avanzo della bilancia commerciale.
È facile vedere però che tale aumento, ove si verificasse, costituirebbe un vantaggio effimero, essenzialmente collegato ad un effetto sorpresa. Se veramente la svalutazione andasse ad intaccare quote di mercato estere, i paesi concorrenti non tarderebbero a prendere contromisure, utilizzando tutto l’armamentario delle barriere tariffarie e non tariffarie all’importazione. Il risultato netto sarebbe (e in effetti, è quello che si sta verificando) una nuova ondata di protezionismo e di guerre commerciali, accompagnata da una generale contrazione dell’attività economica. Tutto ciò evidenzia che quello che veramente conta ai fini del vantaggio competitivo non è la concorrenza di prezzo ma quella di prodotto. Ma per realizzarla è necessario investire in R&D per posizionarsi sui segmenti alti della “catena del valore”.
Al di là di questi aspetti, possiamo evidenziare un altro interessante elemento, forse non abbastanza considerato: il vantaggio effimero della svalutazione implica non solo l’inutilità della svalutazione ma anche la sostanziale impossibilità di mantenerla. E qui casca l’asino! Perché una cosa è fissare con un’azione dei poteri pubblici il tasso di cambio di una nuova moneta ad un certo livello dell’euro, poniamo a 0,8, tutt’altra cosa mantenerlo al livello desiderato in regime di cambi flessibili. Primo, un avanzo commerciale in regime di cambi flessibili porterebbe, ceteris paribus, ad un aumento del tasso di cambio (oltre che a contromisure protezionistiche).
Secondo (ma non in ordine di importanza), è facile immaginare che un Paese con un elevato debito pubblico (in larga parte di proprietà di gruppi stranieri) avrà scarso potere contrattuale nei confronti di tali investitori. Difficilmente quindi lo spread diminuirà in queste circostanze. Tale Paese sarà quindi costretto, per attrarre capitali esteri, ad aumentare il tasso di interesse reale (oltre lo spread), anche attraverso le consuete operazioni di mercato aperto. Ma ciò porterà, con l’afflusso di capitali stranieri, ad un rapido aumento del tasso di cambio e dell’apprezzamento della nuova valuta. Si passerà quindi da un insostenibile e fantasioso sistema di cambi flessibili, a qualche forma di “fluttuazione amministrata” che richiede comunque un accordo più o meno formale con gli altri Paesi (e quindi la potestà sul tasso di cambio sarà più apparente che reale).
Ci troveremmo quindi con un tasso di cambio più o meno uguale al precedente, e con in più i seguenti svantaggi interrelati: (i) Diminuzione, a causa degli elevati tassi di interesse reale, dell’efficienza marginale del capitale (e quindi della propensione ad investire); e conseguente aumento della finanziarizzazione dell’economia. (ii) Diminuzione della domanda interna ed estera derivante dalle barriere tariffarie e dai maggiori costi di transazione. (iii) Aumento dell’avanzo primario per far fronte ad un crescente carico di interessi sul debito pubblico; e conseguente diminuzione della quota di spesa pubblica per obiettivi economici e sociali. (iv) Probabili politiche di austerità, dettate con potere contrattuale ben maggiore dell’attuale, dai gruppi economici e dalle nazioni più potenti. (v) Aumento delle disuguaglianze e degli squilibri territoriali e settoriali.
E il discorso non cambierebbe neppure se si ripudiasse il debito pubblico, poiché i crediti, almeno nel sistema attuale, sono sempre necessari per finanziare i disavanzi pubblici e gli investimenti.
In questo senso, inseguire i miraggi della svalutazione, al di là di qualche eventuale vantaggio temporaneo, non aiuterà a rilanciare la nostra economia, e molto probabilmente peggiorerà il quadro (evidente il caso della Brexit). Per tale rilancio sono necessarie politiche capaci di incidere sui problemi strutturali del nostro Paese.
Arturo Hermann