Può essere utile svolgere qualche riflessione sulle linee di fondo delle politiche economiche degli ultimi 40 anni. Partiamo da un tema “sul tappeto”, il debito pubblico: se è vero che l’Italia ha un valore percentuale tra i più elevati, è anche vero che il fenomeno è ampiamente generalizzato*, con valori pressoché raddoppiati in quasi tutti i Paesi a partire dagli anni 80. Da quando cioè sono cominciate le dissennate politiche neoliberiste [nella versione della sbornia  reaganiana (per i più ricchi) e della austerità thatcheriana (sempre con lusso per i ricchi, ovviamente)].

Sia il  reaganismo  che il thatcherismo hanno prodotto danni enormi a livello economico, sociale e psicologico. Ad esempio, gli aumenti delle disuguaglianze, della povertà e della precarizzazione prodotti da tali politiche hanno diminuito, tra gli altri effetti negativi, la propensione al consumo ed hanno quindi aggravato la tendenza della domanda effettiva a rimanere al di sotto dell’offerta di piena occupazione.

Inoltre, le politiche di alti tassi di interesse reale hanno favorito la finanziarizzazione dell’economia e − con il fallimento delle imprese più piccole per il fenomeno del “razionamento del credito” − la concentrazione del capitale in pochi grandi gruppi.

Qualche parola in più può essere spesa per le politiche reaganiane della supply side economics perché sembrano ispirarsi alle teorie Keynesiane (in realtà ne sono agli antipodi). Gli aspetti principali di tali politiche (riprese in Italia da Berlusconi, ed ora dalle proposte della flat tax) possono così sintetizzarsi: diminuire la tassazione per i più ricchi, un po’ di meno la spesa pubblica (per i ceti più deboli) e finanziare il conseguente disavanzo di bilancio con una marea di titoli del debito pubblico venduti ad alti tassi di interesse reale**.

In tale contesto, molti attaccano l’Unione Europea (UE) come un simbolo del neoliberismo, e del potere delle banche e della finanza. La realtà però è diversa: l’Unione Europea ed i parametri di Maastricht (ben lontani dalla perfezione) nacquero all’insegna molto più dell’ordoliberismo (sulla scia delle socialdemocrazie tedesche e scandinave) che del neoliberismo. Ed il potere delle banche e della finanza esisteva ben prima dell’avvento della UE e continuerà ad esistere (e ancora più incontrollato) anche se la UE dovesse essere soppiantata da tendenze sovraniste (le politiche ultra-liberiste dello shock economico congegnate da Milton Friedman quando era consigliere di Pinochet sono un drammatico esempio di come neoliberismo e totalitarismo si rafforzino a vicenda).

Comunque, i parametri di Maastricht sono compatibili con un’ampia gamma di realtà economiche. E’ evidente (ma del tutto dimenticato) che la loro applicazione dipende dall’impronta politica dei vari Paesi, e che saranno coniugati in modo diverso dai vari schieramenti politici. Il problema attuale non sono tanto i parametri di Maastricht, ma la circostanza che se ne sollecita l’applicazione in chiave neoliberista, ossia cercando di tagliare a tutti i costi la spesa pubblica. Però sta a noi reagire, ma lo facciamo poco e male perché, il più delle volte, attacchiamo la UE invece dell’ideologia neoliberista che la condiziona. Infatti, il limite del disavanzo pubblico del 3% sul PIL nulla dice sul carattere delle politiche economiche. Ma se tutti votassero per una vera sinistra – è importante ricordarlo – si potrebbe arrivare ad una situazione di socialismo democratico pur nei limiti dell’Unione Europea.

Vi può essere quindi, anche con le regole attuali: (i) la proprietà pubblica nelle public utilities ed in altre imprese strategiche; (ii) cooperative di produzione e di consumo; (iii) politiche per la sostenibilità ambientale e per la riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali (ad esempio, nell’ambito della “UN Agenda 2030 for Sustainable Development” dove peraltro la UE, pur nei suoi limiti, sta svolgendo un ruolo di rilievo); (iv) un sistema bancario realmente orientato alla promozione delle piccole imprese e delle realtà locali;  (iv) una tassazione realmente progressiva; (v) una spesa pubblica elevata e trasparente.

Certo, in quest’ultimo caso bisognerà aumentare la pressione fiscale, e ciò sarebbe per tanti il peggiore dei peccati. Ma sarebbe opportuno un tale aumento? Non si può dire in astratto, ed è anche importante chiarire che non siamo dei fautori della spesa pubblica tout-court, e riteniamo centrale applicare un principio di sussidiarietà: se un’attività, come gestire un bar, la può svolgere un privato o una cooperativa, tanto meglio, non vi è bisogno di 10 funzionari pubblici per preparare un caffè!

Il punto è però un altro: a seguito della crescente complessità del sistema e delle contraddizioni che lo caratterizzano, la spesa e l’azione pubblica hanno svolto, come anche notato in altri post, un ruolo centrale nel garantire lo sviluppo del sistema: ad esempio, con la fornitura di beni pubblici strategici; la promozione dell’istruzione, la ricerca e l’innovazione; gli ammortizzatori sociali; e non ultimo, la creazione di domanda effettiva.

Tutto ciò spiega le ragioni dell’aumento in quasi tutti i Paesi OCSE della quota della spesa pubblica*** sul PIL. E come le politiche neoliberiste di attacco indiscriminato a tale spesa siano la principale causa delle attuali difficoltà economiche. Che permarranno finché non sarà rivalutato il ruolo della spesa pubblica. Un passaggio importante in questo senso è il superamento dei nostri limiti nevrotici i quali – determinando spesso egoismi, tendenza alla prevaricazione ed individualismo esasperato – non permettono di apprezzare (e quindi di difendere) l’importanza del bene comune.

La spesa pubblica all’inizio del XX secolo era attorno al 10% del PIL, ed ora ─ nonostante i ricorrenti proclami apocalittici dei neoliberisti ─ è attorno al 50% ed il mondo è andato avanti lo stesso (se non proprio per questo) e tutto lascia presumere che la spesa pubblica non solo non diminuirà, ma aumenterà, seppure forse a ritmi più contenuti. L’obiettivo centrale in questo senso è rendere efficiente e trasparente la spesa pubblica.

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* Come notato in altri post, è impossibile (ed inutile) ripagare tale debito. Il vero obiettivo è una sua graduale stabilizzazione con conseguente riduzione del carico degli interessi. Un carico che graverà sulle nuove generazioni, ma incide già negativamente sulla nostra, distogliendo spesa pubblica da obiettivi di pubblica utilità alle rendite. Lo stesso vale per il debito privato. In questo caso i valori più elevati (dell’ordine del 300% del PIL) si registrano non in Italia ma nei Paesi scandinavi.

https://stats.oecd.org/index.aspx?queryid=34814

https://data.oecd.org/gga/general-government-debt.htm

** Come si ricorderà, le politiche di alti tassi di interesse reale (una pacchia per l’alta finanza) furono attuate con il pretesto – sostenuto da una massiccia campagna mediatica – di contenere i processi inflazionistici indotti, si diceva, dalle “politiche Keynesiane” (in realtà, come notato in altri post, quest’idea è ben poco fondata). In questo senso, le politiche neoliberiste di Reagan e della Thatcher (e dei vari Berlusconi che li hanno seguiti) costituirono una massiccia controrivoluzione dei poteri forti e dell’economia ortodossa nei confronti delle classi lavoratrici, e delle teorie e delle politiche economiche più eterodosse che criticavano in vari modi il modello neoclassico dominante. La reazione a questa svolta conservatrice da parte dell’area progressista è stata ─ e lo è ancora adesso, anche se qualcosa sta cambiando ─ debole e frammentaria. Quello che spesso accadeva (ed ancora accade) è che si criticavano singole misure, ma non l’ideologia di fondo che le ispirava. A ciò ha contribuito anche il fallimento dei Paesi del cd “socialismo reale”.

E’ come se nel campo progressista non si riuscisse psicologicamente ad andare oltre – a causa dei limiti nevrotici ricordati – lo “statalismo alla baffone” ed il liberismo della “austerità thatcheriana” (o al massimo della “sbornia reaganiana”), percepiti come un super-io psicoanalitico (e quindi come figure genitoriali idealizzate ed al tempo stesso odiate). E senza scorgere la possibilità ─ a parte qualche fiacca parentesi socialdemocratica ─ di una più realistica “terza via” di progresso, basata sulla partecipazione e la programmazione democratica.

*** https://data.oecd.org/gga/general-government-spending.htm#indicator-chart

Arturo Hermann