di Paolo Ercolani

Quella contro il Corona è una guerra per la vita. A cui noi avremmo dovuto essere pronti…

Ma l’accordo finisce non appena l’editorialista, riferendosi alla filosofa Susan Sontag, smette di considerare gli aspetti tecnici per esondare nella sfera morale (o addirittura moralistica).

Può un virus dichiararci «guerra»? Sembrerebbe un’assurdità anche soltanto chiederselo. Per una guerra secondo l’intendimento comune, infatti, occorrono almeno due eserciti e qualche ragione oggettiva (in genere nella Storia legata alla terra, alle ricchezze o al potere), più tutta una serie di altre dinamiche legate alle misure politiche ed economiche assunte dai contendenti.

Da questo punto di vista possiamo serenamente escludere che un virus ci abbia dichiarato guerra, e ha fatto bene Daniele Cassandro su «Internazionale» a evidenziare l’inappropriatezza dei media che troppe volte ricorrono alla metafora bellica volendo descrivere lo scenario prodotto dal Covid-19 (https://www.internazionale.it/opinione/daniele-cassandro/2020/03/22/coronavirus-metafore-guerra).

Scrive infatti Cassandro, volendo condannare sul piano della morale la metafora bellica applicata al virus: «Trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate appena, per usare le parole di Sontag, “perdono il loro diritto di cittadinanza da sani per prendere il loro oneroso passaporto da malati […] Sontag si concentra anche sulla figura del malato che è la prima vittima delle metafore della malattia», per cui ammalarsi vorrebbe dire «essere invasi dal nemico e morire è una sconfitta».

Su questo piano il discorso non funziona più, per ragioni che provo a riassumere.

Se infatti spostiamo il discorso bellico sul piano delle metafore, allora ci accorgiamo non soltanto che siamo di fronte a una vera e propria «guerra esistenziale»: «La guerra (polemos) è padre di tutte le cose e di tutte Re; gli uni li ha resi dèi, gli altri uomini, gli uni schiavi e gli altri liberi», scriveva il filosofo presocratico Eraclito (Frammenti: B-51); ma soprattutto dobbiamo prendere atto del fatto che questa «guerra» ha messo oggi in evidenza tutta la natura inadeguata e smidollata dell’Occidente e dell’Italia. Su molti piani.

Innanzitutto il piano genericamente culturale, quello per cui una civiltà benestante e votata a uno sciagurato progresso senza fine non si fa scrupoli a sconvolgere l’ecosistema in cui vive. Ma anche quello in cui l’inclinazione furiosa all’interesse egoistico, al consumismo, al divertimento e alla rimozione della nostra condizione di esseri fragili e gettati in un mondo ben più grande di noi, ci ha reso mediamente tutti quanti cultori del nostro «orticello» e del superfluo, vanesi, improvvidi di fronte alle disgrazie cui inevitabilmente il destino ci pone di fronte («improvida d’un avvenir mal fido», scriveva Manzoni nell’ «Adelchi»).

Questo lo abbiamo visto tradursi in una classe politica mediamente impreparata ad affrontare questa «guerra», incapace di lungimiranza come di decisioni tempestive, riluttante e altalenante rispetto a misure drastiche di contenimento di un male molto più drastico, ma anche irresponsabilmente disunita e conflittuale, non in grado di parlare con una voce sola, autorevole, chiara e decisa, che dall’alto di questa autorevolezza riesca ad imporre alle popolazioni comportamenti specifici adeguati alla gravità della situazione. Se c’è una cosa che la guerra insegna – pensiamo a Sun-Tzu – riguarda l’importanza di individuare condottieri all’altezza della situazione, perché l’esito stesso del conflitto dipenderà in gran parte da questo aspetto.

Ma scadremmo nel populismo se ci limitassimo all’analisi impietosa delle classi dirigenti, perché in realtà abbiamo assistito allo spettacolo indecoroso di popolazioni in larga parte egoiste, irresponsabili, indisciplinate rispetto a una condotta individuale che – ora lo abbiamo scoperto sulla nostra pelle – incide inevitabilmente sulla vita di tutta la comunità. Se fossimo veramente consapevoli della «guerra» perenne e impari cui ci mette di fronte la vita in quanto umanità, coltiveremmo di più quello spirito «cameratesco» che dovrebbe renderci più uniti e collaborativi possibile, specie in situazione di drammatica emergenza come questa. Invece tanti, troppi sono stati i casi di persone irresponsabili, indisciplinate, incuranti del bene comune, e temo che sia dovuto anche a questo il fatto che l’Italia, per il suo rapporto contagiati/popolazione totale, risulti il secondo paese al mondo fra quelli colpiti dal Corona virus.

In tempi di pace ci si può dividere su tutto – e il nostro Occidente benestante è ormai diventato imbattibile in questa arte degenere: destra e sinistra, uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, bianchi e diversamente colorati, vegani e carnivori, populisti e radical-chic, complottisti e apocalittici, vaccinisti e anti-vaccinisti, e chi più ne ha può sbizzarrirsi per molto.

Ma se in tempo di guerra manca il collante che, alla bisogna, ricompone quelle divisioni più o meno inutili di fronte a un nemico mortale, allora ci troviamo di fronte a una civiltà decadente, inflaccidita, smidollata nei suoi componenti e, quindi, fortemente esposta alla sconfitta nella guerra per la vita.

Che si tratta di una guerra per la vita ce lo dice la stessa parola «virus», che in latino significava «veleno» ma possedeva la medesima radice semantica di «vir» (uomo).

Il veleno, l’agente patogeno è inseparabile dall’umanità poiché entrambi inseriti nel contesto vitale (si veda anche il greco «phàrmakon», che significa al tempo stesso medicina e veleno): la vita stessa contempla fra le sue possibilità, apparentemente contraddittorie, quella di avvelenarci e farci male fino a una possibile uccisione (spesso senza una ragione, per quello che è il nostro umano intendere). Quanto più l’umanità è consapevole di questo dato, tanto meno si abbandona alla retorica provvidenzialistica e quindi deresponsabilizzante dell’«andrà tutto bene». Una retorica non per caso impensabile in guerra e, per contro, fortemente applicata nel contesto religioso.

Sempre stando alla saggezza antica (da Platone a Sun-Tzu), i paesi consapevoli che aspirare alla pace significava essere pronti alla guerra approntavano e curavano tre aspetti centrali di ogni società sana e forte: la capacità di fornire cure sanitarie a una parte massiccia della popolazione; l’istruzione dei giovani (in cui si insisteva molto sull’educazione civica, sul bene comune, sulla responsabilità sociale, sulla disciplina e sul valore dell’impegno); la protezione del tessuto produttivo e lavorativo del paese.

Il lungo delirio liberista, invece, ha indebolito i nostri paesi occidentali sotto tutti questi aspetti, ponendo le basi per cittadini spaventati, ignoranti e privi di diritti: queste sono le basi della schiavitù, non l’emergenza sanitaria trattata secondo le metafore della guerra!

Recuperare una sana cultura della guerra, insomma (per i perplessi: sana non significa l’esaltazione sciocca della guerra armata, bensì la cultura dell’essere eticamente preparati e coesi di fronte a quella contesa perenne che ai vari livelli è la vita), ben lungi dal rivelarsi un atteggiamento atto a discriminare persone o a produrre vittime e schiavi, creerebbe le condizioni per una società matura e responsabile. Un società in cui non si debba assistere al proliferare di deliri complottisti da parte di individui che, dovendo canalizzare il panico da situazione eccezionale e angosciante, individuano ogni piano segreto pur di non rispettare le misure che il governo impone in vista della salute pubblica.

Del resto, da questa situazione di emergenza ne usciremo come si esce da una guerra: avremo morti da piangere, un’angoscia repressa da sfogare, affetti da riabbracciare, un Paese in gran parte da ricostruire.

Tutto questo, esattamente come è avvenuto per l’ultimo dopoguerra, potrà essere realizzato con maggiore profitto a seconda del grado di «resistenza» che avremo saputo dispiegare di fronte al nemico grande e terribile.

Quella resistenza che, volenti o nolenti, è stata guerra contro il nazifascismo e oggi deve essere guerra contro un virus. La cui forza distruttiva potrebbe essere proporzionale al nostro livello di smidollatezza.