di Enrico Bucci
Vi sono segnali che inducono a pensare che, in Italia, una prima crisi epidemica grave stia passando. Mi riferisco in particolare al fatto che da qualche giorno il tasso di nuovi ricoveri in malattia intensiva sembra rallentare; e questo è quello che ci serve, perché il grosso dei morti di questo orribile periodo ha a che vedere anche con l’inevitabile e previsto collasso del sistema sanitario, inadatto a fronteggiare un’epidemia seria.
Ho deciso quindi questa mattina di presentarvi alcune considerazioni sparse, ma a mio giudizio importanti, in un lungo post da leggere con calma. Proprio perché si tratta di argomenti distinti, leggete pure separatamente i vari pezzi quando avete voglia.
1. LE ” NOVITA’ ” SCIENTIFICHE DELLA SETTIMANA.
Considerate innanzitutto una precondizione: in un momento in cui l’informazione è concentrata su un solo tema, tutti cercano notizie adatte a fare lanci che differenzino una testata dall’altra, un giornalista dall’altro, un articolo dal precedente, catturando l’attenzione del lettore grazie al meccanismo della novità rivelata per primi. Questo implica che siamo sommersi da un mare senza precedenti di spazzatura informativa: più che fake news (che pure ci sono), in massima parte informazione scientifica molto preliminare trasformata in fatti assoluti e importanti. Fatta questa premessa, rimettiamo al loro posto le cose riportandole alla loro giusta importanza. Sono stati discussi nei minimi dettagli le modalità di trasporto di goccioline emesse in condizioni diverse (starnuti, tosse, conversazione) da esseri umani, principalmente perché sono state pubblicate una lettera di una giovane ricercatrice del MIT che dimostra che, in dipendenza delle condizioni di temperatura, umidità e turbolenza, tali goccioline possono arrivare fino a 8 metri di distanza e perché sono stati riportati (in video) i risultati di una equivalente ricerca giapponese (basata anche su una simulazione al calcolatore) che dimostra la permanenza in aria calma di tali goccioline per tempi lunghi.
Questi dati, uniti al campionamento in 11 stanze con ricoverati COVID-19 effettuato in USA, che ha mostrato come sia possibile rivelare RNA virale nell’aria, e ad un precedente studio cinese, che aveva trovato RNA virale in ospedale su superfici molto lontane dai pazienti (a metri di altezza sul soffitto), indica che vi sono le premesse per il trasporto del virus a distanza e per la sua permanenza in aria calma (lo stesso studio giapponese dimostra che aprire le finestre è sufficiente a disperdere le goccioline all’istante). SI tratta di dati inattesi o novità? No, perché per esempio lo stesso gruppo di MIT aveva già pubblicato dati equivalenti (stavolta su rivista peer-reviewed) nel 2014, e su altri virus (come quello influenzale) si era già dimostrata l’emissione con il respiro. Inoltre, e questo è il punto più importante, nei due studi in cui si è trovato il virus a distanza dal paziente (campionando l’aria nelle stanze con pazienti in USA e campionando le superfici a distanza di esso in Cina), anche se la PCR ha dato esito positivo, il potere infettivo è risultato nullo: questo o perché la carica virale è troppo bassa, o perché il virus è inattivato (per esempio dall’evaporazione rapida delle microscopiche goccioline in cui viaggia). Quindi, OMS ha giustamente riservato attenzione a questi dati preliminari, ma non si possono e non si devono trarre conclusioni circa la dimostrazione del contagio a distanza o della permanenza lunga del virus infettivo in aria, un fatto che resta indimostrato ed improbabile. La ricerca scientifica produrrà le evidenze necessarie per risolvere questo problema, ma ad oggi sono piuttosto arrivate evidenze contrarie (i campioni di aria con tracce di virus ma non infettive in stanze di pazienti ed il fatto che la minima turbolenza disperde tutto).
Come impattano questi dati sull’uso delle mascherine? In nessun modo, naturalmente; invece, i dati che contano in proposito sono i dati sulla trasmissione da asintomatici. Su questo, le evidenze cominciano ad essere molte; per cui, non sapendo se uno sia infetto, ma asintomatico o presintomatico, è necessario pensare all’uso diffuso delle mascherine per prevenire la diffusione del virus da parte di inconsapevoli portatori sani.
Infine, un commento alle notizie giornaliere di vaccini pronti su cerotto, nuovi farmaci australiani e rimedi vari: si tratta di notizie tutte interessanti, ma tutte riferite a studi in stadio precocissimo. Anche se questa volta si tratta di progetti preliminari con buon senso scientifico e dati solidi, i titoli dei giornali hanno già adottato lo stile “trovata la cura per il cancro”: non è così, ed è sbagliato creare “ammuina” per l’ennesimo, piccolo progresso scientifico. Lasciate lavorare i ricercatori in pace, lontano dai riflettori.
Stesso discorso per la trasmissibilità del virus da animali: vi sono dati utili ad accertare che gli animali possano essere infettati, sporadici “in natura” e un po’ più solidi “in laboratorio” con infezione sperimentale; non vi è nessun dato che indichi alcun pericolo per l’uomo o che questo giochi un ruolo importante nella diffusione. Piuttosto, la dimostrazione che il grosso dell’epidemia proceda in comunità chiuse ove non era presente alcun animale (navi in isolamento, ospedali, monasteri, comunità per anziani) fa capire come non abbiamo bisogno di ipotesi aggiuntive per spiegare ciò che sta succedendo; se dovesse alla fine risultare che qualche specie fa da riserva virale, bisognerà senza dubbio preoccuparsi, ma questo è almeno per ora ininfluente ai fini della trasmissione di un virus che si diffonde efficientemente per via aerea tra umani.
2. NOI CONTRO DARWIN
Dopo la fantomatica ricerca di inesistenti picchi (che non esistono in una curva prodotta da dati rumorosi e composti di tantissimi effetti diversi) oggi ci si è spostati a scrutare il futuro per individuare la data del giorno a “contagio zero”. Ho una notizia per voi: è ancora una volta un esercizio inutile. Per vari motivi: innanzitutto, perché un giorno senza contagi non preclude al fatto che il giorno dopo ve ne saranno. In secondo luogo – e questo è il punto importante – perché stiamo parlando di un sistema darwininiano in rapida evoluzione. Il virus rimarrà, come insegna il fatto che la peste sia ancora fra noi: ogni soluzione deve quindi prevedere il fatto che dovremo convivere con questo e con tantissimi altri nuovi parassiti emergenti.
Attenzione: questo significa anche che farmaci e vaccini saranno – come sono sempre stati – una soluzione tanto più utile quanto meglio saranno disegnati, tenendo conto della capacità mutazionale dei coronavirus e degli altri patogeni all’orizzonte; ma rischiano comunque di essere soluzioni temporanee (anche su tempi lunghi, va detto). In questo senso, quei farmaci che agiscono su di noi, invece che sul virus – abbattendo per esempio l’infiammazione anomala causata dal virus – potrebbero essere fondamentali perché, non esercitando pressione selettiva sul virus, non ne selezionano ceppi mutati che eliminino la risposta farmacologica (come invece accade per ogni antivirale).
Ma perché improvvisamente dobbiamo preoccuparci di queste cose, e non possiamo pensare che si tratti di un caso unico? È il nostro modo di vivere che ha creato le condizioni ideali per replicatori darwiniani in rapida evoluzione (i virus ed i batteri): siamo molti, siamo fortemente interconnessi, ci spostiamo rapidissimamente in ogni angolo del globo. Dobbiamo quindi adattarci, senza credere di poter tornare indietro. Che significa adattarci? Idealmente, significa spostare il peso dei nostri investimenti in sanità pubblica verso un sistema di sorveglianza epidemiologica (tamponi e test sierologici) per questo virus, in modo che quando decideremo di riaprire saremo in grado di isolare rapidamente i nuovi focolai; ma significa anche predisporre un sistema rapido di intercettazione di focolai di sintomatologie atipiche, che ci avrebbe permesso di scoprire i gruppi di polmoniti atipici alla fine di dicembre e di sviluppare test rapidi di ricerca molecolare del nuovo parassita (questo o i prossimi, il discorso non cambia). Questo sistema di sorveglianza, prevenzione ed isolamento locale rapido prevede anche che la sanità pubblica debba tornare ad essere molto diffusa sul territorio, senza più concentrarsi solo sugli ospedali di eccellenza (che concentrando i pazienti sono luoghi pericolosi per la diffusione di patogeni infettivi sconosciuti).
Il contagio zero è una chimera, dobbiamo attrezzarci: questo è il succo. Con una postilla: nessun sistema democratico che non sia capace di garantire la salute e la vita dei cittadini sopravvive ad un replicatore darwiniano, quale il virus è. Adattamento è la chiave.
3. TEST SIEROLOGICI ED INDIPENDENZA SANITARIA
Smettiamola di prenderci in giro. I test sierologici devono essere unici e validati in ambiti territoriali il più vasti possibile. Chi rifiuta questa idea, in nome della difesa della sanità regionale e del federalismo sanitario, non capisce che nessuna regione può difendersi dall’eventuale minore efficienza delle regioni circostanti, e nessun muro salverà i cittadini di quelle regioni che credono di essere più furbe. Non buttate in vacca la scienza, in nome della difesa delle idee federaliste: e ricordiamoci che il federalismo è nato per unire ciò che era diviso, non per separare ciò che era unito. Detto questo, non vi è nessuna ragione perché si debba tornare ad una gestione centralizzata ed inefficiente, che si traduca in un livellamento verso il basso: perchè le risorse e le forze di ciascuna regione possono essere amministrate in maniera indipendente, purché tutti remino nella stessa direzione scientifica (test validati e strategie di contenimento uniche).
Io personalmente non ho preconcetti politici e non mi interessa essere tirato su nessun terreno di scontro politico: mi limito ad osservare che la conoscenza scientifica va applicata ovunque nello stesso modo, senza lasciarci distrarre da localismi inopportuni. Altrimenti, regioni efficientissime finiranno travolte dai loro vicini pigri o folli.
4. QUANTO, QUANDO.
Quanto possiamo resistere così? Quando torneremo ad una vita migliore?
Nelle condizioni attuali, non possiamo resistere ancora a lungo. Meno ancora di chi scrive, possono resistere tutti quei cittadini che vivono in case piccole e buie nei vicoli di qualche città, coloro che non hanno nessun mezzo di sussistenza (legale o illegale che sia, non è questo il punto), coloro che hanno impedimenti fisici e faticano già in condizioni normali (e sono tanti, perché vi sono anche moltissimi anziani) ed infine tutti noi, perché siamo una specie di primati sociali a spiccata attitudine esploratoria, il cui equilibrio mentale dipende sia dalla possibilità di incontrare altri che dalla possibilità di muoversi liberamente (una libertà, non a caso, sancita nella nostra Costituzione).
Tuttavia, possiamo resistere ancora un poco se siamo motivati positivamente a farlo. Basta comunicazioni deboli ed incoerenti: è arrivato il momento di una comunicazione chiara, positiva ma non falsa, che spieghi alcune semplicissime cose e dia un motivo per restare ancora un poco in casa. Eccone alcuni, di motivi per resistere: i risultati di prove su larga scala, in cieco, con tutti i crismi della scientificità su alcuni farmaci di massimo interesse (primo tra tutti il remdesivir, ma ve ne sono altri) arriveranno entro la prima metà di maggio, a vedere i disegni degli studi in corso. Avere farmaci significa poter riaprire senza intasare troppo gli ospedali e senza rischiare centinaia di migliaia di morti anche in presenza del virus, prima che sia disponibile un vaccino (non credete a chi vi dice che è pronto a produrre decine di migliaia di dosi in un mese, perché il problema non è la produzione, ma la validazione dei vaccini). Dunque, attendiamo innanzitutto i risultati di queste prove sperimentali. Se tutte dovessero essere negative – e lo sapremo a maggio, ripeto – potremo cominciare comunque a pensare di riaprire, ad alcune condizioni.
La prima è quella di cui abbiamo già parlato: un sistema di sorveglianza epidemiologico stretto – test, trace and track – che serva a spegnere nuovi focolai.
La seconda, quella di rinforzare le norme di isolamento e compartimentazione negli ospedali, dando per scontato che non si sia fuori dall’epidemia, ma in una semplice fase di diminuzione transitoria. La terza, quella di cominciare a tracciare gli immuni fra il personale sanitario, in modo da impiegare il personale giusto in condizioni di emergenza; così come tracciare gli immuni a partire da tutte quelle professioni maggiormente esposte a contatti sociali, come le forze dell’ordine, la protezione civile, i commercianti. Sempre, lo ripeto ancora, a condizione di usare test sierologici validati, a taso di errore noto e compatibile con le grandezze epidemiologiche note per questa epidemia.
Avremo ancora morti, per molto tempo, anche se sperabilmente di meno, se riusciremo ad agire razionalmente: altrimenti, avremo un picco epidemico dopo l’altro.
5. SCIENZA SOLIDA O NULLA
Non possiamo basare le nostre decisioni sulla produzione scientifica di questo periodo, senza fare una attenta analisi metodologica. Il problema è che siamo invasi da montagne di pubblicazioni precoci, infondate, o palesemente falsate da dati inconsistenti e mal raccolti. Editoriali e lettere prevalgono in numero su articoli con dati o revisioni statistiche della letteratura precedente; i preprint, articoli che cioè non hanno passato nessuna revisione, hanno nell’emergenza più peso che mai, e nessuno si sofferma a considerare se uno studio abbia i numeri per significare alcunché.
Abbiamo quindi urgentissimo bisogno che la comunità scientifica ritorni al suo robusto modo di procedere, che non consiste solo nel produrre dati e scoperte, ma anche nel separare il grano dal loglio, analizzando in profondità e con severità la propria stessa produzione scientifica. Questo significa una cosa semplice: vagliare metodi e statistica di ogni singolo articolo scientifico che si intende usare come base di evidenza per prendere decisioni. E, d’altra parte, significa anche che la politica deve lasciar perdere i titoli dei giornali, le interviste dei ricercatori, i video su youtube: solo dati, ed in loro assenza decisione assunte senza chiamare in campo una scienza che non c’è (assunzione di responsabilità, dunque).