di Mario Basile
La verità per lei era stata una funzione variabile del tempo che non era dipesa dal fatto che le cose erano state solo immaginate o erano semplicemente successe, ma era stata originata dal quel lontano intendimento che le aveva fatto rimanere nascoste, non conosciute e non raccontate, poiché nello stesso istante in cui quelle cose sarebbero state raccontate o si sarebbero manifestate nella vita reale, allora esse si sarebbero mostrate anche in ciò che sarebbe apparso meno reale, in ciò che si sarebbe potuto forse definire soltanto finzione. Ma quale sarebbe stata la loro vera consistenza?
Forse sarebbe stato quel lontano sentiero che le aveva fatto ripercorrere le fluide stratificazioni del passato…
Grazie alla cinepresa ora lei avrebbe trovato finalmente il coraggio di ammettere, in modo pubblico ed oggettivo, quello che era sempre stata: una strana creatura alla ricerca di se stessa.
Aveva cominciato filtrando l’innocenza, aveva proseguito approdando al dolore. Il tempo l’aveva esiliata dal mondo delle cose invisibili, da quel mondo dell’infanzia e delle favole a cui aveva creduto da bambina, ma lei adesso era forse definitivamente fuori dal regno delle fate e dei folletti che avevano accompagnato i suoi sogni nelle placide notti cullate dalle rassicuranti ninne nanne.
Il tempo passato non era stato che una cornice dove inserire ciò che ormai le sembrava estraneo. Nel ricordo che aveva della sua vita passata, i tempi si erano disposti su livelli e piani assurdi, allorché, nei giorni degli anni pieni della sua sfolgorante giovinezza, lei si era immaginata ancora mescolata ai lontani giorni dell’infanzia quando stava seduta felice tra i suoi giocattoli.
Per molto tempo, poi, gli uomini l’avevano esiliata dalla realtà visibile, dal momento che nessuno, a quanto pareva, l’aveva considerata se non per la sua strepitosa bellezza.
Nel mondo visibile lei si era sentita ferita, trafitta a morte, ma difficilmente si era autocompianta.
Si era invece servita delle immagini, poiché, protetta dall’interlocutore dalla distanza imposta dallo schermo e dal pudore della maschera a lei fornita dalla sua professione di attrice, riusciva a buttare in faccia al mondo la sua rabbia e il suo rimprovero.
La verità per lei era ancora una funzione variabile del tempo e la sua vita passata era tornata a far parte dell’analogia e del simbolo e dunque le situazioni da lei vissute non erano più gli eventi che lei aveva attraversato, ma solo i momenti che si erano ormai trasformati in una identificazione di metafore.
Nella realtà ora cercava di ritrovare se stessa e nel suo essere attrice la propria forza. Riallacciava contemporaneamente il rapporto con l’invisibile, grazie a quelle immagini che attraverso la libertà della finzione generava.
Con lui, invece, adesso era finalmente riuscita a superare tutti gli ostacoli che le avevano impedito di esprimere in modo personale il proprio mondo interiore.
Si erano conosciuti, per caso, nei pressi di un famoso ristorante di Modena, in quel centro storico racchiuso da un pentagono di viali alberati.
Lei si trovava in quella città in incognito, alla ricerca di un luogo dove ambientare il primo film che l’avrebbe vista anche come regista. Dopo lo sconcerto iniziale era avvenuta la rivelazione e quel giorno il mondo esterno le era apparso come un attore sul palco: era lì, ma era un’altra cosa.
Ancora una volta sarebbe avvenuta la fuga da quel mondo e dal passato.
Ora ripercorreva la solita strada e la sua infanzia adesso le appariva come un quartiere distante, anche se abbagliato da un improvviso lampo che le mostrava quel regno di fate dove i suoi sogni si erano dissolti.
Non era in quel grande giardino che vedeva giungere la fine della stagione estiva. Era nei rari alberi di una piccola piazza della città: lì il verde spiccava come un dono, era allegro, ma velato tuttavia da una dolce tristezza. Lei amava molto quella piazzetta solitaria, intercalata fra vie di scarso traffico, dove era avvenuto il loro primo incontro. Ora, per andargli ancora una volta incontro, si avvicinava di nuovo ad essa, percorreva una delle sue vie affluenti, poi ridiscendeva di nuovo, per ritornare verso quella piccola piazza.
Osservata dal lato opposto la stessa piazza le sembrava stranamente diversa ed un improvviso pensiero, rumorosamente silenzioso, lasciava indorare di improvvisa nostalgia il lato non percepito all’andata, che adesso era baciato dal sole del tramonto: un’altra notte avrebbe accolto ancora una volta la loro passione…
La loro storia sembrava una di quelle relazioni che lei ricreava ogni giorno sul set e quella realtà a lei piaceva viverla come una splendida finzione.
Lei ora avrebbe dovuto girare il suo film e avrebbe potuto, finalmente, eliminare, almeno nella dissimulazione cinematografica, quella vipera assassina, che glielo strappava dalla vista e dalle viscere.
Tra vagolanti pensieri intanto l’avventura, vissuta per quei due giorni come un film western, sarebbe tuttavia di nuovo finita.
O notte, dove le stelle mentono luce, o notte, unica cosa della grandezza dell’Universo, fammi diventare, anima e corpo, parte del suo corpo, perché mi perda come pura tenebra e divenga anch’io notte, senza sogni che non siano stelle in me e con un atteso sole che mi illumini dal futuro.
Nei vaghi suoi pensieri lei avrebbe voluto trasportare nella vita reale la finzione del suo lavoro, ma la realtà sarebbe invece ritornata. Lui si sarebbe celato dietro lenti scure e lei l’indomani non avrebbe potuto permettersi il lusso di accompagnarlo alla stazione. Il treno sarebbe arrivato puntuale e lui ancora una volta avrebbe rischiato di perderlo.
Il controllore gli avrebbe chiesto il biglietto: Modena – Bologna. 40 chilometri. Nebbia piatta. Distanza infinita…
Quello stesso lunedì mattina lui avrebbe ripreso il suo lavoro di integerrimo magistrato, mentre lei avrebbe continuato a rivelarsi attraverso la maschera, confondendo il mondo invisibile della realtà con quello visibile della finzione. Gli altri sarebbero diventati, ancora una volta, lo specchio nel quale lei si sarebbe definita, realizzando la propria diversità.
Domani un’impostura avrebbe puntualmente trasformato il suo specchio in una macchina nella quale lei avrebbe potuto trasfigurare quei meravigliosi momenti, risolvendo i suoi problemi semplicemente esponendoli, trasformandoli così in un deformante miraggio e riservando per sé il segreto sconosciuto a quelli che di lei conoscevano soltanto la finta realtà della sua immagine visibile e che adoravano solo la sua ombra proiettata sullo schermo.
Intanto le ultime calure dell’estate avevano perso la loro più torrida violenza e, sotto il sole velato, in una tristezza lieve, prolissamente indefinita, l’autunno cominciava a svelarsi ancor prima di arrivare, come se il cielo non avesse più voluto sorridere.
La strana creatura che era dentro le sue carni sarebbe rimasta, ancora una volta, avvolta nella nebbia del regno invisibile dei fantasmi. Possedere era come perdere. Sentire senza possedere era come custodire, poiché avrebbe significato estrarre da un’assenza la sua segreta essenza.
La verità per lei sarebbe stata ancora una volta una funzione variabile del tempo. Forse per questo nella finzione lei avrebbe raccontato tanto o tutto, perché niente sarebbe sembrato essere accaduto, una volta raccontato.