Come è noto il jobs act renziano, cancellando l’art.18, ha reso possibile il licenziamento senza giusta e giustificato motivo anche nelle imprese con almeno 15 dipendenti. Da allora si sono levate varie voci a favore del suo ripristino, ma non hanno raggiunto la necessaria forza e convinzione per porre la issue del ripristino dell’art.18 veramente sul tappeto. Insomma, anche buona parte del centro-sinistra pensa che maggiore libertà di licenziamento implichi un maggiore incentivo per le imprese ad assumere (perché poi possono licenziare facilmente). Ma è davvero così? Vediamolo con un semplice esempio. Se il PIL attuale è 1000, ed il PIL di pieno impiego è di 1100 ― e l’occupazione è proporzionale al PIL in base ad un parametro di produttività, quindi uguale nella situazione attuale a 1000/1100, ossia ≈ 90,9% della forza lavoro ― come si può raggiungere il pieno impiego? E’ probabile che molti risponderanno: ma è semplice, basta aumentare con appropriate politiche il PIL a 1100. Già, ma le soluzioni logiche non sono di questo mondo: infatti, si comincerà a dire, guarda che se riduciamo i salari di almeno ≈ 9,09% (100/1100) e diamo mano libera agli imprenditori di licenziare, il PIL aumenta e, in ogni caso, la piena occupazione è pienamente realizzata anche con il PIL di 1000 perché le imprese assumono, con i salari più bassi, i lavoratori disoccupati. Grande inesattezza! Le esperienze concrete ci dicono che se si riducono i salari si riduce la domanda e quindi il PIL. E non solo: se si riducono i salari, le imprese non assumono altri lavoratori ma tendono a sfruttare/precarizzare sempre più quelli presenti, realizzando la cd wage-slavery. In questo senso, contrapporre gli interessi dei disoccupati a quelli degli occupati è una favola neoliberista (e confindustriale) in cui troppi, anche a sinistra, ci credono. Quindi è molto più efficace, nell’interesse dei disoccupati e degli occupati, seguire la strada dell’aumento del PIL. In questo contesto, sarebbe cosa buona e giusta difendere i diritti degli ultimi ma anche dei penultimi e dei terzultimi, anche di chi viene vessato e ricattato ogni giorno sul posto di lavoro, ricordando come dice la canzone, che esistono ancora i lavoratori sfruttati, malpagati e frustati….Già, ripetono i neoliberisti, ma con l’art.18 non si può più licenziare. Davvero? I dati dicono ben altro!
Microsoft Word – LA0346 (camera.it)
Possiamo però chiederci le ragioni per cui ci adattiamo facilmente a relazioni lavorative e sociali autoritarie e disumane. E dimentichiamo che — a parte piccolissime imprese/realtà dove prevalgono relazioni strettamente fiduciarie — essere licenziati per giusta causa o giustificato motivo (come previsto dall’art.18) costituisce un principio basilare di convivenza civile. Siamo in fondo anche noi così indifferenti, anche a causa della nostra aggressività nevrotica e relativi sensi di colpa? Se l’impresa viene percepita inconsciamente come una famiglia, forse proiettiamo anche in quell’ambito i conflitti nevrotici sviluppatisi in tale sfera. Ad esempio, una concezione patriarcale della famiglia ha qualcosa a che fare con le pretese del padrone di avere un potere assolutistico sui suoi collaboratori?
Arturo Hermann