Come è noto, l’analisi del ruolo della spesa pubblica nel sostenere la domanda effettiva è stata, rispetto alle politiche neoclassiche di austerità, una delle più importanti innovazioni dell’economia Keynesiana. Sebbene lo stesso Keynes sia sempre stato abbastanza vago sul come finanziare tale spesa, la spesa pubblica in disavanzo è diventata il tratto distintivo, anche un po’ trasgressivo, dell’economia Keynesiana. Insomma, nell’inconscio collettivo una politica Keynesiana senza disavanzo pubblico è un po’ come Pisa senza la Torre pendente. Il carattere espansivo del disavanzo pubblico appare evidente dalla nota identità di contabilità nazionale,
1. C + S ≡ Y ≡ C + I + (G – T)
dove un aumento del disavanzo di bilancio (spesa pubblica meno imposte, G – T) produce, in caso di capacità produttiva inutilizzata (che è poi la norma nelle economie capitalistiche), in un aumento del PIL (Y) e dei consumi e risparmi del settore privato (C + S).
Fin qui, sembra tutto abbastanza chiaro e di facile applicazione.
Il disavanzo di bilancio, però, si deve finanziare in qualche modo, e qui cominciano le dolenti note. Un primo sistema, molto caldeggiato dai teorici post-Keynesiani e della Modern Monetary Theory, propone di finanziare le spese in disavanzo attraverso la creazione diretta di moneta da parte dello Stato e/o della Banca centrale, oppure ― il che è in fondo la stessa cosa ― vendendo, senza particolari vincoli, titoli di stato alla banca centrale.
Questo sistema è ottimo in teoria ma richiede per la sua concreta attuazione, (i) una riduzione del potere del capitale finanziario (nel cui portafoglio, come subito vedremo, vi è la gran parte del debito pubblico mondiale), e (ii) regole precise per evitare non tanto l’inflazione ma il caos, perché ognuno potrebbe dire “please, stampate un bel po’ di moneta (o fate un bell’accredito in conto corrente) anche per me!”.
Peraltro, una situazione del genere non è affatto fantascienza, ma è proprio quel che si è in qualche modo verificato fino all’incirca la metà degli anni settanta, dove il settore pubblico ― anche spinto/lobbizzato da vari interessi privati e politici ― spendeva e spandeva senza preoccuparsi del futuro, per dire il minimo. Nella crisi economica che ne è seguita, che in realtà però non è dipesa affatto solo dalle “politiche Keynesiane”, i gruppi conservatori e gli interessi del grande capitale hanno preso la palla al balzo per sferrare un attacco senza precedenti a tutte le politiche progressiste basate sulla spesa pubblica. È così cominciata l’era del neoliberismo con le privatizzazioni (che hanno quasi sempre favorito non il libero mercato ma i grandi oligopoli), e gli attacchi allo stato sociale e alla sicurezza del posto di lavoro.
Ed i disavanzi di bilancio, sono scomparsi nel vortice neoliberista? Neanche per sogno! Sono stati ridotti (o si è fatto finta di ridurli) in qualche caso, ma nel complesso sono tornati in grande auge a partire dalla Reaganomics, una sorta di “Keynesismo di destra”: meno tasse per i più ricchi, diminuzione della spesa pubblica per i più poveri con contestuali aumenti per finanziare le grandi corporation (ad esempio con ingenti commesse pubbliche per lo spazio e gli armamenti).
In questo contesto di Keynesismo di destra, i disavanzi di bilancio hanno svolto un ruolo ben più importante che il semplice sostegno alla domanda effettiva: infatti, tali disavanzi, dopo il divorzio Tesoro/Banche centrali, sono stati per forza di cose finanziati con una massiccia emissione sul mercato di titoli del debito pubblico, che sono largamente finiti nel portafoglio dei grandi gruppi. E tutto ciò è stato accompagnato e favorito, in particolare ai tempi delle Reaganomics, da politiche di alti tassi di interesse reale.
Tali politiche*, ufficialmente varate per il controllo dell’inflazione, hanno in realtà dato l’avvio al massiccio processo di finanziarizzazione del sistema economico che conosciamo. Ed hanno generato, con l’aumento progressivo del debito pubblico**, rendite finanziarie colossali per il grande capitale. Questo processo è alla base delle crescenti disuguaglianze di reddito, della marginalizzazione dell’economia reale, e della crescente erosione della sicurezza economica dei lavoratori e delle classi/aree più vulnerabili. Questi ed altri squilibri sono culminati, come è noto, nella crisi economica del 2008, dalla quale non si è ancora veramente usciti.
Quali soluzioni per ridurre il potere del capitale finanziario e garantire la piena occupazione come aspetto centrale di uno sviluppo equo e sostenibile? Quel che sembra essenziale, è ridurre una delle fonti principali delle rendite finanziarie, ossia la necessità di finanziare i disavanzi di bilancio con debito pubblico.
La strada più semplice e promettente ― anche in considerazione che, come evidenziato dal cd “teorema di Haavelmo”, anche un bilancio in pareggio può avere effetti espansivi ― sembra quella di ridurre direttamente i disavanzi di bilancio. Ciò può realizzarsi, in uno spirito Keynesiano, (i) rendendo la spesa pubblica più efficiente ed orientata ad obiettivi di pubblica utilità; e (ii) attraverso un aumento della progressività della tassazione―in particolare, per i redditi più elevati e le rendite finanziarie (e con sgravi fiscali per attività innovative e sostenibili, in particolare dei giovani e delle piccole e medie imprese).
Un altro aspetto centrale di queste politiche (come Keynes proponeva esplicitamente nell’ultimo capitolo della “Teoria Generale” per realizzare “l’eutanasia del rentier”) è una riduzione permanente (o anche in alcuni casi un azzeramento o un valore negativo) dei tassi di interesse reale. A questo punto, la parte residua dei disavanzi di bilancio (1%-2%) potrebbe essere monetizzata in modo molto più semplice, ossia finanziata direttamente del governo e/o dalle banche centrali. Ovviamente, in casi di emergenza sanitaria e sociale come l’attuale, si può e si deve procedere su scala globale ad una monetizzazione dei disavanzi (in parte attuata con i Quantitative Easing) molto più estesa.
Arturo Hermann
* In effetti, la svolta neoliberista avvenne attraverso un largo consenso elettorale (in particolare, Thatcher e Reagan in UK e in USA, e Berlusconi in Italia), basato sulla diffusa convinzione che la stagflazione degli anni 70 dipendesse dalla spesa pubblica e dalle richieste dei sindacati. Questa convinzione è stata rafforzata dal fallimento dei paesi del “comunismo reale” e dalla difficoltà ad andare oltre una dicotomia astratta stato (autoritario) e mercato (anch’esso autoritario ovviamente).
Queste convinzioni possono anche essere legate ad un senso di colpa inconscio (ed alla relativa punizione), collegato al super-io psicoanalitico, relativo a sentimenti di avidità ed aggressività nei confronti della spesa pubblica (che può inconsciamente rappresentare una figura materna che nutre e protegge). Molti hanno quindi pensato che un po’ di disciplina del mercato, inconsciamente equiparato al super-io, potesse rimettere le cose a posto.
Il rimedio neoliberista, però, è stato come mettere la volpe a guardia delle galline: infatti, mentre gli aspetti particolaristici della spesa pubblica non sono affatto terminati (in quanto i tagli hanno riguardato i più indifesi), a ciò si è aggiunto l’aumento delle rendite reso possibile dalla finanziarizzazione dell’economia alimentata dal debito pubblico.
** I dati più recenti indicano che nel 2020 il debito mondiale ha raggiunto i 281,5 trilioni di dollari statunitensi. Per le economie avanzate il rapporto debito/Pil ha superato il 122,5% nel 2020. Se si considera che almeno il 60%-70% di tale debito è in mano ai grandi gruppi, e che i pagamenti per interessi rappresentano almeno il 2%-3% dello stock di debito, si può avere un’idea dell’entità dei vantaggi finanziari per questi gruppi. È vero che tali dati sono aumentati negli ultimi anni a seguito della pandemia, ma erano ben elevati anche prima.
Per maggiori dettagli si rimanda a Focus n. 06 – 01 marzo 2021.pdf (bnl.it)