di Laura De Barbieri

“Stai composta”, “sii femminile”, “non fare l’isterica”, “sii mite”, “sii paziente”, “fallo contento”, “stai zitta”, “rispondi!”, “fai la sexy”, “cara signora mia”, “ma non vorrai uscire così?”, “sembri una prostituta”, “sembri una monaca”, “fai la graziosa”, “ma sei arrabbiata oggi?”, “dai fammi un sorrisetto”… termini, linguaggio che si applica solo e unicamente al femminile.

Siamo abituate a sentirci dire cose simili, almeno in un periodo della nostra vita, da persone vicine o da sconosciuti. Sono piccolezze, piccole freccette che ci smuovono lo stomaco. Piccole umiliazioni. Toni da supervisore, da “proprietario” che ci lasciano un sentimento di impotenza e di inadeguatezza perenne, di rivolta assopita.

Vorremmo tanto mantenere indenni le nostre figlie e non tramandare di generazione in generazione questa fatale eredità. Ci spiegano però ancora e ancora che ci sono dei termini “neutri”, che sembrano solo maschili in apparenza ma che sono -anche- femminili e -anche- in italiano dove il neutro non esiste proprio. Già…

La grammatica non si cambia e prevale il maschile negli accordi. Ma per i nomi, i titoli, le professioni? Avvocata, architetta, ministra… sono professioni che “suonano male”, ci dicono, “non esistono”, non è poi così importante? Dopo anni di studi universitari o di formazione ci sentiamo dunque dire che noi donne esistiamo solo come appendice maschile. Ma non lo sentiamo solo noi, lo sentono anche le nostre figlie e i nostri figli, in un pacchetto regalo all-misoginy-included ed è questo che fa più male.

E allora “cara signora mia, ma sei arrabbiata oggi?”.