di Mario Pizzoli
No, non è un invito a disertare i social (anche se farebbe bene a tutti), ma fornire qualche spunto di riflessione sull’impatto che internet, e i social in particolare, hanno su alcuni aspetti della nostra vita.
1) Seguo una trasmissione serale, l’Eredità, non tanto per lo spettacolo in se, quanto per l’allenamento che induce. Infatti l’intero gioco è basato sulle parole e sui loro significati. E’ un indubbio esercizio mentale in grado di stimolare la conoscenza e l’associazione di significati a molte parole in uso o anche desuete. Inoltre, accadendo di dover indovinare anche cognomi e nomi di persone famose, induce la conoscenza di fatti noti e meno noti legati alla scienza, alla letteratura e allo spettacolo. Ebbene, mi rendo conto, ascoltando le risposte dei concorrenti, specie quelli più giovani, di quanto la conoscenza sia della lingua italiana, sia della storia (intesa in senso lato: arte, letteratura, spettacolo, eventi, ecc) sia venuta meno col passare del tempo. E’ possibile, ammettiamolo, che i programmi scolastici siano in parte non mirati al ragionamento ma più spesso alla cultura generale e alla conoscenza superficiale. Ma secondo me esiste un’altra componente. Internet rende disponibile un’enorme quantità di informazioni in brevissimo tempo e ovunque. Non sembra inverosimile che gli individui, oggi più di ieri (dove si parlava di cultura enciclopedica per identificare la conoscenza vasta dei fenomeni), siano “pigri” nel memorizzare le informazioni, coscienti del fatto che possono ritrovarle facilmente e immediatamente anche con il loro smartphone. Insomma, chi me lo fa fare di sapere le cose se posso cercarmele e avere le risposte in un microsecondo? Questa assuefazione al “se mi serve lo cerco” crea a mio avviso una “ignoranza” di base che potrebbe assumere contorni patologici, se non contrastata.
2) Seguo internet per mille motivi di socialità, e mi imbatto sempre più spesso negli scambi di opinioni. Ora, è possibile che si possa avere un’opinione su molte cose, difficilmente si avrà su tutto. Ma il punto fondamentale di questo discrimine è il proprio campo di responsabilità, di conoscenza, e le possibili fonti a supporto delle proprie convinzioni. I social hanno invece sdoganato il concetto di “uno vale uno”, estremamente democratico ma altrettanto estremamente fallace e fuorviante. Il punto nodale di questa nuova “patologia digitale” è legato alla convinzione che io possa discutere di tutto, avere un’opinione su tutto, e che la mia opinione, indipendentemente dalle fonti su cui l’ho formata, sia alla pari con l’opinione di esperti del settore. La recente pandemia ha reso evidente questa patologica interpretazione dei fenomeni perché ognuno non solo ha ritenuto opportuno dire la sua su vaccini e malattia, ma anche quella di voler contrastare le opinioni dei virologi. Il corollario di questo atteggiamento, è che in base alla mia opinione, ad esempio contraria all’esperto X, non mi induce a pensare che io possa aver sbagliato ad analizzare le informazioni in mio possesso (non essendo un esperto) ma che l’esperto X in realtà è un corrotto che mi nascondo la verità. Diciamo chiaramente che esiste un business evidente e pernicioso basato sulla disinformazione e sulle false notizie.
3) L’associazione tra pagine social digitali, le principali testate giornalistiche, e la politica, rende questo terreno non solo genericamente scivoloso, ma anche socialmente pericoloso. Oggi, un mezzo come Facebook o Instagram, ha acquisito una “ufficialità” nella comunicazione, anche quella istituzionale, creando gravi storture e alimentando quella che poi viene definita “propaganda”.
La pericolosità dipende da vari fattori. Prima fra tutti la manipolazione che crea orde di fanatici credenti della voce del padrone. Tra fakes, mezze verità e improbabili associazioni di idee e concetti, la comunicazione social appare la nuova arma da scasso del terzo millennio. Il fenomeno del complottismo, che è sempre esistito, assume oggi, proprio in virtù delle pagine social, contorni di patologia comunicativa vera e propria, potendo indurre credenze così assurde e creando illegittimi dubbi dove non ci sono, e creando, potenzialmente, allarme sociale. NB: non si tratta di eliminare il dubbio, alla base di qualunque indagine, e di qualunque scoperta o miglioramento, ma di eliminare l’assurdo, l’infondato, il maniacale-ossessivo. Accanto a questo, la presenza di una comunicazione politica social, anche e soprattutto laddove si presenta come positivo tentativo di avvicinare il proprio linguaggio agli elettori, da invece la stura, molto spesso al fenomeno degli haters di professione. Cosa che ci porta all’ultimo punto.
4) la comunicazione social, per definizione libera ed incontrollabile, se non dietro segnalazione in genere, ha partorito il fenomeno degli haters, gli odiatori di professione, che postano solo per il gusto di insultare e odiare chiunque, meglio se persona nota. Questo fatto prima era socialmente più complicato da fare, perché legato alla necessità di seguire un concerto, di incontrare fisicamente un autore o un politico ad un convegno, insomma di essere fisicamente sul posto. Oggi a colpi di click, posso insultare chi voglio anche mille persone, anche intorno al mondo. Il fenomeno è molto lontano dal concetto di critica, legittimo e sacrosanto, ma al fenomeno che tende a far sentire importante chi scrive perché può farlo direttamente a persone famose, che in condizioni normali non potrebbe incontrare di persona. Insomma qualcuno direbbe che sono degli sfigati, rancorosi, altri che sono ossessionati. Anche questo comportamento è stato in effetti sdoganato con l’avvento dei social.
5) Non passa giorno che qualcuno non posti un selfie, o una foto del piatto che sta mangiando, o del proprio vestito o delle proprie curve o muscoli. Non passa giorno che ci si trova a vedere gente che chiacchiera, che balla, che canta, indipendentemente dalla capacità di farlo. Siamo tutti ormai convinti di essere parte di una grande comunità che abbia interesse a vedere e ad ascoltare ciò che abbiamo da dire o ciò che immortaliamo in foto. E’ possibile che sia così. Nel mio piccolo spero che quello che scrivo susciti interesse nel lettore. Non per gloria personale, ma come contributo all’esercizio mentale dell’analisi della realtà, che non è la mia o la vostra, ma è quella che è, e a cui diamo significati diversi a seconda degli stati d’animo che proviamo o della “mission” che ci siamo dati. La mia è di stimolare la riflessione altrui, senza pretesa di indurre alcun cambiamento. Per altri è di apparire. Ma la differenza tra apparire ed essere, spesso drammatica, è in parte anche l’effetto di una bolla social, che tende a trangugiare tutto, o a mostrare la realtà come spesso diversa da quella che è. Ma come per gli alcolisti e i tossicodipendenti, si può dire che possiamo smettere quando vogliamo, sapendo che è assolutamente la più penosa e umana delle bugie.
